Dai microscopici e indistruttibili tardigradi alle spore batteriche resistenti al vuoto cosmico, la vita terrestre ha già iniziato il suo viaggio nello spazio. Ma cosa succede quando moduli spaziali atterrano su altri corpi celesti? Abbiamo davvero “seminato” esseri viventi sulla Luna o altrove? E quanto è concreta la possibilità che microbi terrestri sopravvivano su Marte o su lune ghiacciate? In questo articolo esploriamo la straordinaria resistenza dei tardigradi, i casi documentati di contaminazione spaziale – accidentale e intenzionale – e gli esperimenti scientifici che studiano come la vita si adatta a condizioni estreme. Dalla missione Beresheet ai tardigradi sulla Luna, fino ai batteri sulle sonde marziane e ai semi germinati nello spazio, scopriremo se la vita può davvero superare i confini del nostro pianeta… e cosa significa per il futuro dell’esplorazione spaziale.
I tardigradi (noti anche come “orsi d’acqua”) sono micro-animali famosi per la loro straordinaria resistenza. Possono sopravvivere a condizioni estreme per qualunque altra forma di vita: temperature da -272 °C fino a +150 °C, pressioni altissime o il vuoto quasi totale, radiazioni intense e persino dieci anni senza acqua. Per testare i loro limiti, nel 2007 gli scienziati europei li hanno mandati in orbita con la missione Foton-M3 dell’ESA. Circa 3000 tardigradi disidratati sono stati esposti per 12 giorni allo spazio aperto (vuoto, freddo estremo, raggi cosmici e radiazione UV solare diretta) a circa 270 km dalla Terra. Al rientro, con grande sorpresa, molti erano sopravvissuti al vuoto e ai raggi cosmici, e alcuni addirittura alle letali radiazioni UV – oltre 1000 volte più intense che al suolo. I tardigradi sopravvissuti sono persino tornati attivi e hanno ripreso a riprodursi normalmente una volta reidratati sulla Terra. Questa impresa ha fatto dei tardigradi i primi animali mai osservati sopravvivere all’esposizione diretta allo spazio.
Esperimenti successivi (come quelli condotti all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale) hanno confermato la loro resistenza, pur evidenziando che l’irradiamento solare diretto resta il fattore più critico: al riparo dal Sole, i tardigradi e anche batteri sporigeni possono resistere molto più a lungo nello spazio. Queste ricerche aiutano a capire i “trucchi” biochimici con cui i tardigradi proteggono DNA e cellule in condizioni estreme – conoscenze utili non solo per la scienza spaziale, ma anche per applicazioni biotecnologiche sulla Terra. Nel 2021 la NASA ha perfino avviato esperimenti di quarta generazione sulla ISS, allevando tardigradi per più cicli vitali in orbita, per vedere se e come la loro adattabilità evolutiva cambia in microgravità e sotto radiazione cosmica. Insomma, i tardigradi si stanno rivelando piccoli “astronauti” naturali dal cui DNA potremmo imparare molto.
Tardigradi a spasso tra Terra e Luna? Nel 2019 questi microscopici “highlander” terrestri hanno fatto notizia in relazione alla Luna. La sonda privata israeliana Beresheet, infatti, trasportava a bordo un curioso “archivio della vita” progettato dalla Arch Mission Foundation: un disco tipo DVD con 30 milioni di pagine di informazioni, campioni di DNA umano e migliaia di tardigradi disidratati. L’intento era simbolico-scientifico: i tardigradi erano stati scelti come testimonial biologici, data la loro rinomata resistenza, per vedere se potessero sopravvivere nell’ambiente lunare. Purtroppo (o per fortuna?) Beresheet si è schiantata sulla Luna nell’aprile 2019 durante il tentativo di atterraggio. Cosa ne è stato dei tardigradi? Gli esperti ritengono probabile che siano sopravvissuti all’impatto rimanendo però in stato criptobiotico, dato che erano inglobati nell’ambra resinosa e fissati su nastri all’interno del payload. In pratica, anche se sparsi sul suolo lunare, questi animaletti sono bloccati nel loro “fermo biologico”: non possono attivarsi né riprodursi, a meno di entrare in contatto con acqua liquida.
La superficie lunare infatti è arida, priva di atmosfera e sottoposta a sbalzi termici e radiazioni estreme – condizioni in cui i tardigradi restano inanimati, col metabolismo quasi azzerato, forse per anni o secoli. Perciò, niente “invasione” di tardigradi sulla Luna: non esiste alcuna colonia attiva. Come ha spiegato l’astrofisica Patrizia Caraveo, nel migliore dei casi i tardigradi lunari rimarranno dormienti a tempo indeterminato. Del resto, erano stati sigillati apposta in supporti (resina e nastro) e non liberati nell’ambiente, proprio per evitare di contaminare il suolo lunare. Qualcuno ha perfino ipotizzato future missioni per recuperarli e “riportarli a casa”! Al di là della Luna, non risultano altri casi documentati di tardigradi arrivati su altri corpi celesti. Nessuna sonda per Marte o altrove ha deliberatamente portato tardigradi, e le rigorose sterilizzazioni pre-lancio rendono improbabile un’“autostop” accidentale di questi organismi (più facile per batteri o spore microscopiche). In sintesi, i tardigradi hanno dimostrato di poter sopravvivere allo spazio, ma “colonizzare” altri mondi è ben altra storia: servirebbero ambienti ospitali con almeno un po’ d’acqua perché tornino attivi – cosa che finora non è accaduta nel nostro sistema solare.
Contaminazione biologica accidentale nello spazio. L’episodio di Beresheet ha acceso i riflettori sul tema della contaminazione planetaria, cioè l’involontario trasporto di microbi terrestri su altri corpi celesti. Non è una preoccupazione nuova: fin dagli albori dell’era spaziale si è capito che razzi e sonde potevano portare con sé “passeggeri indesiderati”. Già nei primissimi voli suborbitali accidentalmente volarono batteri e spore terrestri. Un caso famoso avvenne con la missione Apollo 12 nel 1969: gli astronauti riportarono sulla Terra la fotocamera della sonda Surveyor 3, atterrata sulla Luna due anni prima. In laboratorio, con enorme stupore, venne rilevata all’interno della fotocamera la presenza di un batterio comune (lo Streptococcus mitis). In un primo momento si annunciò che quel microbo aveva resistito per 2 anni e mezzo sulla Luna, sopravvivendo al vuoto, alle radiazioni e alle temperature lunari. La notizia fece scalpore – era la prima evidenza di un organismo terrestre vivo dopo una lunga permanenza su un altro mondo! Tuttavia, indagini più approfondite condotte anni dopo svelarono un “retro-scena”: è molto probabile che il batterio abbia contaminato il campione dopo il rientro, durante le analisi in laboratorio, a causa di procedure non perfettamente sterili dell’epoca. In altre parole, con ogni probabilità non era sopravvissuto sulla Luna, ma aveva origine da un’imprudenza umana sulla Terra. Nonostante ciò, il caso Surveyor servì da monito: dimostrò che le nostre sonde possono trasportare microbi e che bisogna fare molta attenzione nel maneggiare i campioni per non confondere una contaminazione terrestre con un’eventuale vita extraterrestre. Da allora, sono state rafforzate le misure di protezione planetaria. Ad esempio, le sonde Viking inviate su Marte negli anni ’70 – che cercavano tracce di vita marziana – vennero completamente sterilizzate in forno prima del lancio, per evitare di depositare microbi terrestri sul suolo marziano. Ancora oggi la NASA e le altre agenzie spaziali seguono rigidi protocolli: tutto il hardware destinato a mondi come Marte, Europa o Encelado (dove potrebbe esistere vita indigena) viene costruito in camere bianche super-pulite e sottoposto a sterilizzazione termica o chimica. Ciò riduce di molto (ma non azzera del tutto) il biocarico microbico. Si è scoperto infatti che alcuni microbi estremi resistono persino ai trattamenti delle camere bianche: un caso notevole è il Tersicoccus phoenicis, un batterio identificato per la prima volta proprio nel 2007 in una clean room durante l’assemblaggio di una sonda per Marte (la Phoenix). Questo microbo – nuovo per la scienza – sopravvive con pochissimi nutrienti ed è tollerante a secco, detergenti e UV, tanto da essersi annidato solo in due laboratori spaziali nel mondo. Organismi così robusti potrebbero teoricamente sopravvivere al viaggio interplanetario nascosti in qualche fessura della sonda. Per fortuna, esperimenti e simulazioni indicano che la superficie esterna di un veicolo spaziale in viaggio subisce condizioni micidiali (radiazioni solari dirette, vuoto, temperatura estrema) che sono letali per quasi tutti i microbi esposti.
Ad esempio, test con spore batteriche di Bacillus subtilis hanno mostrato che, se esposte direttamente allo spazio, ne muoiono oltre il 99.99% in poche settimane; ma un piccolo resto può sopravvivere per anni se è schermato dai raggi UV, ad esempio annidato sotto uno strato di polvere o all’interno di pori e crepe. In un famoso esperimento denominato EXOSTACK, campioni di spore attaccati all’esterno del satellite LDEF rimasero in orbita per 6 anni: incredibilmente, circa il 30% delle spore sopravvisse, ma solo quelle sepolte negli strati più interni del campione, quindi protette dalle radiazioni ultraviolette. Questo dimostra che il viaggio da un pianeta all’altro può essere superato da alcuni microbi molto resistenti, specie se schermati. D’altra parte, persino in orbita bassa attorno alla Terra troviamo tracce di microbi terrestri: i cosmonauti russi hanno segnalato più volte di aver raccolto campioni di batteri sulle superfici esterne della ISS durante attività extra-veicolari. In un caso si è parlato di microalghe marine (plancton) rinvenute sui finestrini esterni – forse trasportate fin lassù dalle correnti atmosferiche terrestri. Un astronauta russo spiegava che in 19 anni di voli, i tamponi passati sul rivestimento della stazione hanno rivelato batteri che non c’erano all’inizio, insinuatisi quindi dopo il lancio. Nulla di “alieno”, beninteso: si tratta comunque di microbi terrestri, trasportati dall’aria o dagli stessi veicoli di rifornimento. Questi esempi di “autostop biologico” mostrano quanto sia difficile evitare del tutto la contaminazione: anche senza volerlo, la vita terrestre tende a viaggiare con noi. Per questo gli enti spaziali hanno uffici dedicati alla Planetary Protection e impongono limiti severi al numero di spore consentite su ogni veicolo destinato a corpi celesti sensibili (come Marte). E per i luoghi potenzialmente abitabili, l’imperativo è chiaro: “non inquinare”. Ad esempio, la sonda europea Rosetta non fu fatta atterrare su Europa o Encelado (luoghi con oceani interni) per evitare qualsiasi rischio biologico, e la stessa Beresheet – essendo diretta sulla Luna, già toccata da astronauti umani – non era soggetta a controlli così stringenti. Tuttavia, l’incidente dei tardigradi sulla Luna ha riacceso il dibattito etico: è giusto depositare intenzionalmente organismi viventi su altri mondi, anche se ritenuti inattivi? La cautela non è mai troppa, perché ogni contaminazione accidentale potrebbe un giorno complicare la ricerca di vita aliena distinguendo ciò che è “nostro” da ciò che è nativo di un altro pianeta.
Esperimenti deliberati: la vita terrestre come ospite dello spazio. Oltre alle contaminazioni involontarie, c’è una lunga storia di esperimenti deliberati in cui abbiamo inviato forme di vita nello spazio per studiarne le reazioni. In effetti, i primi esseri viventi a raggiungere lo spazio furono inviati proprio per esperimento: il 20 febbraio 1947 gli Stati Uniti lanciarono con un razzo V2 un carico di moscerini della frutta (Drosophila), per studiare gli effetti delle radiazioni ad alta quota. Da allora è iniziata la “corsa allo spazio” degli animali: famosi sono la cagnetta Laika a bordo dello Sputnik 2 nel 1957 (primo essere vivente in orbita) e a seguire scimmie, cani e altri animali negli anni ’50-’60, usati per testare la sopravvivenza in microgravità prima dei voli umani. Parallelamente, sono state effettuate prove con organismi più piccoli e resistenti. Negli anni ’60, ad esempio, il programma americano Biosatellite lanciò capsule con insetti, uova di pesce, microbi e piante per valutare come la microgravità influisse su di essi. L’Unione Sovietica rispose con le missioni Bion (Cosmos), che per decenni hanno portato in orbita assortimenti di tartarughe, insetti, batteri e piccoli mammiferi, spesso per studiare gli effetti delle radiazioni cosmiche e dell’assenza di peso sul corpo vivente. Un caso notevole fu Zond 5 (URSS, 1968), la prima navicella a fare il giro della Luna e tornare a Terra con passeggeri biologici: a bordo c’erano due tartarughe, semi di piante, uova di mosca e batteri – tutti sopravvissuti al volo circumlunare di una settimana. Negli ultimi decenni, con la Stazione Spaziale Internazionale, è diventato possibile mantenere veri e propri laboratori biologici in orbita: si sono coltivate piante, riprodotti insetti e tenuti animali (come i noti esperimenti con i topi) per capire come la vita si adatta alla lunga permanenza nello spazio. Un filone di ricerca particolarmente interessante riguarda gli estremofili, organismi che sulla Terra vivono in condizioni proibitive (deserti gelidi, sorgenti bollenti, ecc.).
Oltre ai tardigradi, si è visto che anche alcune licheni possono sopravvivere incredibilmente bene allo spazio: nel 2005, ad esempio, l’ESA espose due specie di licheni all’esterno della capsula Foton-M2 per 14 giorni. Al rientro, i licheni non solo erano vivi, ma presentavano una fotosintesi ancora normale, malgrado l’esposizione prolungata al vuoto, ai raggi cosmici e all’intero spettro UV solare. È stupefacente se si considera che il lichene è un organismo complesso (un’associazione simbiotica di un fungo con un’alga): malgrado ciò, il suo “mini-ecosistema” ha resistito allo spazio quasi quanto le spore batteriche. Questo risultato ha ampliato le prospettive sugli studi di panspermia, suggerendo che anche forme di vita più complesse potrebbero, in linea di principio, trasferirsi tra pianeti se adeguatamente protette. Numerosi altri microbi – batteri e funghi – sono stati testati all’esterno della ISS tramite le piattaforme Expose dell’ESA, spesso simulando anche condizioni marziane (ad esempio, atmosfera ricca di CO₂ e radiazione UV filtrata come su Marte) per vedere se potrebbero sopravvivere su quel pianeta. Questi esperimenti hanno rivelato che alcune spore e cellule possono restare vitali per mesi o anni in ambiente marziano simulato, specie se schermate dalla polvere, mentre i raggi UV marziani (meno intensi di quelli spaziali, ma pur sempre forti) sono il fattore più limitante alla sopravvivenza microbica sulla superficie di Marte. Oltre ai microorganismi, anche semi e piante sono stati portati nello spazio: già durante le missioni Apollo gli astronauti portarono semi di alberi sulla Luna (i “Moon trees”, poi germinati sulla Terra).
Più di recente, la Cina ha tentato il primo orto lunare: nel 2019 il lander Chang’e-4 ha ospitato un mini-biosfera sigillata contenente semi di cotone, patata, arabidopsis (una piantina), uova di moscerino della frutta e lieviti. Sorprendentemente, un seme di cotone è germinato sulla Luna – la prima fogliolina mai nata su un altro corpo celeste. Tuttavia, l’esperimento era progettato per durare poco: con il sopraggiungere della lunga notte lunare (14 giorni terrestri a -170 °C) la piantina è congelata e morta, come previsto. Il contenitore è rimasto sigillato, scongiurando contaminazioni ambientali, e il piccolo germoglio lunare è servito soprattutto a dimostrare che è possibile far nascere vita terrestre fuori dalla Terra, anche se mantenerla è tutta un’altra sfida. Esperimenti come questo aprono la strada a future serre spaziali e mostrano i limiti da superare per coltivare piante su Luna o Marte.
In conclusione, la presenza di forme di vita terrestri nello spazio non è più fantascienza ma realtà documentata: dai tenaci tardigradi sopravvissuti nel vuoto, ai batteri nascosti nelle sonde, fino ai semi germinati sulla Luna. Queste scoperte ci insegnano da un lato che la vita può adattarsi ben oltre i confini del suo habitat originario, ma dall’altro ci ricordano di procedere con cautela. Ogni volta che esploriamo un nuovo mondo, dobbiamo evitare di “sporcarlo” con i nostri microbi, sia per etica che per non falsare future ricerche di vita aliena. Allo stesso tempo, portare deliberatamente organismi terrestri nello spazio – in modo controllato – è fondamentale per capire i meccanismi della vita e forse un giorno permetterci di creare avamposti viventi fuori dalla Terra. In fondo, ogni astronauta umano è esso stesso un involontario “ecosistema ambulante” di microbi: la vita terrestre viaggia già con noi tra le stelle, e sta a noi fare in modo che questa grande avventura avvenga in modo responsabile e scientificamente prezioso.
Stefano Camilloni