Negli ultimi anni, Marte è diventato il centro dell’attenzione delle agenzie spaziali internazionali, che pianificano di riportare sulla Terra campioni rocciosi prelevati dal Pianeta Rosso entro il prossimo decennio. Questa straordinaria opportunità scientifica porta con sé un’importante preoccupazione: e se tali campioni contenessero forme di vita marziana, anche semplici microbi? Quali sarebbero i rischi per il nostro pianeta?
La fantascienza ci ha spesso mostrato scenari catastrofici legati alla contaminazione aliena. Ma al di là del cinema, la comunità scientifica prende molto seriamente queste eventualità. Già durante le missioni Apollo, gli astronauti di ritorno dalla Luna furono sottoposti a rigorosi protocolli di quarantena e decontaminazione. Oggi, con l’imminente ritorno di campioni marziani, la preoccupazione ritorna attuale e impone lo sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate per individuare forme di vita.
Proprio in quest’ottica, un team internazionale guidato dal professor Yohey Suzuki, dell’Università di Tokyo, in collaborazione con la NASA, ha recentemente messo a punto una tecnica rivoluzionaria: la spettroscopia ottica fototermica infrarossa (O-PTIR).
Suzuki e il suo gruppo hanno inizialmente utilizzato strumenti convenzionali per analizzare rocce basaltiche terrestri vecchie di circa 100 milioni di anni, simili a quelle che potrebbero essere raccolte su Marte. Tuttavia, nessuno strumento tradizionale è riuscito a identificare con precisione la presenza di microorganismi in queste rocce antiche. Di conseguenza, i ricercatori hanno optato per la spettroscopia O-PTIR, un metodo che utilizza luce infrarossa e un laser verde per rilevare segnali indicativi di cellule microbiche.
La tecnica prevede di illuminare il campione con luce infrarossa e di raccogliere poi con un laser verde segnali ottici ad altissima risoluzione. Grazie a questo approccio, è possibile ottenere immagini dettagliate di strutture di dimensioni inferiori a un micrometro, sufficiente per distinguere le cellule microbiche dalle strutture inorganiche.
“Abbiamo dimostrato che questa metodologia può rilevare microbi in rocce basaltiche vecchie di 100 milioni di anni,” spiega Suzuki. Il prossimo passo sarà estendere l’applicabilità della tecnica anche a rocce più antiche, dell’ordine di 2 miliardi di anni, analoghe a quelle raccolte dal rover Perseverance su Marte. Inoltre, verranno esaminati altri tipi di rocce comuni sul Pianeta Rosso, come i carbonati, che sulla Terra spesso ospitano microorganismi.
Lo sviluppo della spettroscopia O-PTIR rappresenta una pietra miliare per la ricerca astrobiologica, fornendo uno strumento potente e minimamente distruttivo per rilevare segni di vita passata o presente in campioni extraterrestri. Un passo decisivo per rispondere finalmente alla grande domanda che ci accompagna da sempre: c’è vita nell’universo oltre la Terra?
Stefano Camilloni