Dopo nove mesi in orbita, gli astronauti Wilmore e Williams tornano a terra e scoprono che camminare dritti non è così semplice come ricordavano. E il cervello? Forse è ancora nello spazio…
Il recente rientro sulla Terra degli astronauti Butch Wilmore e Suni Williams, dopo una missione “a sorpresa” durata ben nove mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), ha regalato scene commoventi e abbracci calorosi. Doveva essere un viaggio di appena otto giorni, ma un guasto tecnico ha trasformato la loro breve vacanza spaziale in una permanenza prolungata degna di un reality show cosmico.
Tuttavia, una volta toccato il suolo, i due astronauti si sono subito resi conto che il ritorno alla normalità terrestre avrebbe richiesto qualcosa di più di un semplice “bentornati” e una stretta di mano. L’impatto della gravità, infatti, ha immediatamente messo alla prova la loro mobilità ed equilibrio. “Pensavamo che la parte difficile fosse fluttuare nello spazio,” hanno scherzato i due astronauti, “ma provate voi a stare in piedi dopo mesi senza gravità!”
All’Università della Florida, la brillante Dott.ssa Rachael Seidler sta conducendo studi dettagliati sugli effetti a lungo termine del volo spaziale, concentrandosi soprattutto sul misterioso e affascinante adattamento del sistema nervoso centrale e della struttura cerebrale. La ricerca della Dott.ssa Seidler, vice direttrice dell’Astraeus Space Institute, punta a comprendere come il cervello umano reagisca a questi drastici cambiamenti di ambiente, e soprattutto, come decida poi di tornare (o non tornare!) alla normalità una volta rientrati sulla Terra.
Un fenomeno curioso e affascinante che emerge da questi studi è quello della compensazione cerebrale: al ritorno sulla Terra, il cervello cerca disperatamente di ripristinare la situazione pre-volo, reclutando vie neurali alternative per farci sembrare almeno vagamente coordinati. Questo fenomeno scompare lentamente nel giro di sei mesi, ma ciò che preoccupa di più i ricercatori è che alcune alterazioni strutturali del cervello sembrano proprio decise a restare. Tra questi cambiamenti, il cervello si ritrova posizionato un po’ più in alto rispetto a prima e i ventricoli cerebrali – piccole cavità riempite di liquido – possono aumentare il loro volume anche del 25%. Insomma, se vi dicono che avete la testa tra le nuvole, provate voi a stare nello spazio per nove mesi!
La Dott.ssa Seidler sottolinea anche l’importanza di comprendere la Spaceflight-Associated Neuro-Ocular Syndrome (SANS), una complicata condizione che coinvolge occhi e nervo ottico, facendo sorgere problemi di vista in ben il 70% degli astronauti. In pratica, non basta essere super intelligenti per diventare astronauti: bisogna anche accettare che il ritorno a casa potrebbe comportare qualche “piccolo problemino” di vista e cervello.
Gli scienziati dell’UF, inoltre, si divertono (per modo di dire) anche a simulare gli effetti dello spazio in laboratorio, facendo stare i volontari sdraiati per settimane, con la testa inclinata verso il basso. Un’esperienza che probabilmente nessuno consiglierebbe come vacanza, ma che aiuta enormemente a capire come il nostro corpo si adatti alla microgravità. Mentre le missioni spaziali diventano sempre più ambiziose, la ricerca dell’UF assume un ruolo sempre più centrale nel garantire che i futuri astronauti siano pronti ad affrontare le “simpatiche” sfide che il cosmo riserva loro.
Insomma, il viaggio spaziale potrebbe sembrare romantico e affascinante, ma ricordatevi sempre che, una volta tornati sulla Terra, potreste scoprire che la gravità è più “pesante” di quanto ricordavate. Ma niente paura, c’è sempre qualche brillante scienziato pronto a studiare come riportarvi, letteralmente, con i piedi per terra.
Stefano Camilloni