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Il grande silenzio: cosa significherebbe non trovare vita su altri mondi?

Per secoli, l’umanità ha scrutato il cielo notturno, ponendosi una domanda che risuona attraverso le ere: siamo soli nell’universo? La ricerca di vita al di là della Terra ha acceso la nostra immaginazione e spinto progressi scientifici inauditi. Ma cosa succederebbe se, dopo anni di osservazioni e analisi sofisticate, il cosmo ci restituisse solo un eco di silenzio?

Un team di ricercatori guidato dal Dr. Daniel Angerhausen, fisico presso l’ETH di Zurigo e affiliato al SETI Institute, ha affrontato proprio questo scenario inquietante. La loro indagine, pubblicata su The Astronomical Journal, si è addentrata nelle profondità di un’eventualità che, sebbene possa sembrare scoraggiante, potrebbe in realtà svelare verità fondamentali sulla presenza della vita nel cosmo.

Attraverso un’analisi statistica bayesiana, lo studio ha cercato di stabilire il numero minimo di esopianeti che dovremmo osservare per ottenere risposte significative sulla frequenza di mondi potenzialmente abitati. Immaginate: gli scienziati puntano i loro telescopi verso decine di nuovi mondi, pianeti simili alla Terra che orbitano all’interno della cosiddetta “zona abitabile” delle loro stelle, dove l’acqua liquida potrebbe esistere in superficie. Ma cosa succederebbe se, dopo aver esaminato tra 40 e 80 di questi esopianeti, non trovassimo assolutamente alcun segno di vita?

La conclusione a cui giunge lo studio è sorprendente: un risultato di “non-rivelazione” così netto permetterebbe di affermare con una certa sicurezza che meno del 10-20% di pianeti simili ospitano la vita. Potrebbe sembrare una magra consolazione, ma nel contesto della vasta distesa della Via Lattea, questo 10% si tradurrebbe comunque in circa 10 miliardi di mondi potenzialmente abitati.

Questo tipo di risultato negativo aprirebbe una nuova frontiera nella nostra comprensione del cosmo, permettendo ai ricercatori di stabilire un limite superiore significativo alla prevalenza della vita nell’universo, una stima finora rimasta fuori dalla nostra portata. Ma attenzione, dietro questo scenario apparentemente semplice si celano insidie e incertezze. Ogni osservazione è intrinsecamente imperfetta. L’incertezza interpretativa potrebbe portare a “falsi negativi”, ovvero mancare una biofirma e classificare erroneamente un mondo come inabitato. Allo stesso modo, l’incertezza campionaria potrebbe introdurre distorsioni se includessimo pianeti non rappresentativi, che non soddisfano i requisiti minimi concordati per la presenza della vita.

“Non si tratta solo di quanti pianeti osserviamo, ma di porre le domande giuste e di quanto possiamo essere sicuri di vedere o non vedere ciò che stiamo cercando”, avverte Angerhausen. “Se non stiamo attenti e siamo eccessivamente fiduciosi nelle nostre capacità di identificare la vita, anche un’indagine su vasta scala potrebbe portare a risultati fuorvianti”.

Queste considerazioni sono cruciali per le future missioni, come il Large Interferometer for Exoplanets (LIFE), guidato dall’ETH di Zurigo. L’obiettivo di LIFE è analizzare decine di esopianeti simili alla Terra in massa, raggio e temperatura, studiando le loro atmosfere alla ricerca di tracce di acqua, ossigeno e biofirme più complesse.

La buona notizia, secondo Angerhausen e i suoi collaboratori, è che il numero previsto di osservazioni sarà sufficientemente elevato per trarre conclusioni significative sulla diffusione della vita nel nostro quartiere galattico. Tuttavia, lo studio sottolinea che anche gli strumenti più avanzati richiedono un’attenta contabilizzazione e quantificazione delle incertezze e dei pregiudizi per garantire che i risultati siano statisticamente validi.

Per affrontare l’incertezza campionaria, ad esempio, gli autori suggeriscono che domande specifiche e misurabili, come “Quale frazione di pianeti rocciosi nella zona abitabile di un sistema solare mostra chiari segni di vapore acqueo, ossigeno e metano?”, sono preferibili alla domanda molto più ambigua: “Quanti pianeti hanno vita?”.

Anche la nostra conoscenza pregressa influenza l’interpretazione dei risultati futuri. Angerhausen e colleghi hanno studiato come le assunzioni iniziali sulle variabili osservative influenzano gli esiti delle future indagini, confrontando l’approccio bayesiano con il metodo frequentista, che non si basa su queste assunzioni. È interessante notare che, per le dimensioni del campione previste da missioni come LIFE, l’influenza delle ipotesi iniziali sui risultati dell’analisi bayesiana risulta limitata, e i due approcci statistici forniscono risultati comparabili.

“Nella scienza applicata, la statistica bayesiana e quella frequentista sono a volte interpretate come due scuole di pensiero concorrenti. Come statistica, mi piace considerarle modi alternativi e complementari per comprendere il mondo e interpretare le probabilità”, spiega la coautrice Emily Garvin.

Questo lavoro evidenzia l’importanza di formulare le giuste domande di ricerca, di scegliere la metodologia appropriata e di implementare piani di campionamento accurati per una interpretazione statistica affidabile dei risultati di uno studio.

“Una singola rilevazione positiva cambierebbe tutto”, afferma Angerhausen. “Ma anche se non troviamo vita, saremo in grado di quantificare quanto rari – o comuni – potrebbero essere realmente i pianeti con biofirme rilevabili”.

In definitiva, anche il silenzio del cosmo potrebbe raccontare una storia profonda sulla nostra esistenza e sul nostro posto nell’immensità dello spazio. La ricerca di vita extraterrestre è un viaggio costellato di incertezze, ma ogni passo, anche quelli che apparentemente non portano a nulla, ci avvicina sempre di più alla comprensione del grande mistero della vita nell’universo.

Stefano Camilloni

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