Il mistero dell’oscurità del cielo notturno ha affascinato gli scienziati per secoli. Tra paradossi apparentemente insolubili e intuizioni geniali, la soluzione risiede nel Big Bang e nell’espansione dell’universo. Scopriamo come l’oscurità cosmica riveli i segreti dell’origine e del destino del cosmo.
Conosciuto come il paradosso di Olbers, il mistero apparentemente banale dell’oscurità del cielo notturno ha sconcertato gli astronomi per secoli. È affascinante come una domanda così semplice, quasi banale, possa condurre a intuizioni profonde e cosmiche.
Ad esempio: perché il cielo è buio di notte?
La risposta intuitiva potrebbe sembrare ovvia: ci sono solo un numero limitato di stelle, e quelle più lontane appaiono più deboli. Tra una stella e l’altra c’è molto spazio vuoto, quindi è naturale che il cielo appaia nero. Ma questa spiegazione, seppur logica, è incompleta. La realtà è molto più complessa e, fino a un secolo fa, non era affatto evidente nemmeno per i più grandi scienziati.
Il paradosso di Olbers: un universo statico e infinito
Il problema è stato formalizzato dal tedesco Heinrich Wilhelm Olbers nel 1823. Secondo il modello prevalente dell’epoca, l’universo era infinito, statico e popolato da stelle distribuite uniformemente. Se questo fosse vero, il cielo notturno non dovrebbe essere buio, ma straordinariamente luminoso. Perché?
Immaginiamo l’universo suddiviso in gusci sferici concentrici attorno alla Terra. Ogni guscio contiene un numero crescente di stelle, dato che il volume cresce con il quadrato della distanza. Tuttavia, la luminosità di ogni stella diminuisce con il quadrato della distanza, annullando l’effetto dell’aumento di stelle in gusci più lontani. Quindi, ogni guscio, vicino o lontano, dovrebbe contribuire con la stessa quantità di luce al cielo notturno. Ma con un numero infinito di gusci, il cielo dovrebbe essere completamente illuminato.
Qualcuno potrebbe pensare che polveri e nebulose blocchino la luce delle stelle più lontane. Tuttavia, questi ostacoli si riscalderebbero e brillerebbero essi stessi, annullando l’oscurità.
Una soluzione sorprendente: Edgar Allan Poe
La svolta arrivò non da un astronomo, ma da un poeta. Nel 1848, Edgar Allan Poe, nel suo saggio Eureka: A Prose Poem, suggerì che l’universo non fosse infinito né eterno. La luce proveniente da regioni lontanissime non ha avuto abbastanza tempo per raggiungerci. Questa intuizione, sebbene non rigorosamente matematica, anticipava una parte della soluzione moderna.
La chiave del Big Bang
La seconda parte della risposta giunse con le scoperte del XX secolo. Gli astronomi constatarono che l’universo non solo era molto più grande della Via Lattea, ma era anche in espansione. Il modello del Big Bang, che data l’origine dell’universo a circa 13,8 miliardi di anni fa, offre una spiegazione chiave: possiamo vedere solo la luce proveniente da stelle entro un certo limite di distanza, perché l’universo ha un’età finita. Inoltre, l’espansione cosmica allunga le lunghezze d’onda della luce (redshift), riducendone la luminosità.
Un futuro sempre più buio
Oltre a porre un limite alla luce visibile, le stelle hanno una vita finita. Col tempo, l’universo diventerà sempre più buio, man mano che il gas disponibile per la formazione stellare si esaurirà.
Il paradosso di Olbers, quindi, non è un vero paradosso, ma un’illusione creata dalla nostra comprensione limitata. Come disse Lord Kelvin, i paradossi nella scienza scompaiono con il progredire della conoscenza.