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Il mistero del finale di Contact: scienza, fede e il senso dell’universo

Nel 1997, il film Contact di Robert Zemeckis, tratto dal romanzo di Carl Sagan, ha lasciato milioni di spettatori con una domanda fondamentale: come possiamo conoscere davvero ciò che esiste, se non possiamo provarlo? Il finale della pellicola, enigmatico e profondo, è diventato un simbolo del dialogo tra scienza e fede, due approcci apparentemente opposti ma in realtà complementari nella nostra incessante ricerca di verità. In questo articolo, analizziamo il significato del finale di Contact, esplorando i suoi temi scientifici e filosofici, e confrontandolo con il romanzo di Sagan.

Scienza e fede: due facce della stessa medaglia?

Fin dall’inizio, Contact contrappone due personaggi emblematici: Ellie Arroway (Jodie Foster), scienziata determinata e razionalista, e Palmer Joss (Matthew McConaughey), un uomo di fede e consulente spirituale. La loro relazione mette in scena un dibattito millenario: la scienza richiede prove tangibili, mentre la fede si fonda su una convinzione interiore. Il film, però, non presenta una contrapposizione netta tra le due visioni, bensì suggerisce che possano convivere e addirittura rafforzarsi a vicenda.

Uno dei momenti chiave avviene quando Palmer chiede a Ellie: “Tu amavi tuo padre?” e, alla sua risposta affermativa, ribatte: “Provalo.” Questo semplice scambio di battute dimostra che non tutto ciò che è reale può essere dimostrato con dati oggettivi. L’amore, il dolore, la bellezza e l’esperienza personale sfuggono spesso al metodo scientifico, eppure sono tra le cose più vere della nostra esistenza.

Ed è proprio su questa ambiguità che si gioca il finale del film.

Un viaggio tra le stelle… e dentro noi stessi

Dopo anni di ricerca nel progetto SETI (Search for Extraterrestrial Intelligence), Ellie riesce a decifrare un segnale alieno proveniente dal sistema di Vega. Il messaggio contiene schemi matematici e i piani per costruire una misteriosa “Macchina” in grado di trasportare un essere umano nello spazio profondo.

Scelta per il viaggio, Ellie viene catapultata attraverso una serie di wormhole e raggiunge una civiltà extraterrestre avanzata. Qui incontra un’entità che assume le sembianze di suo padre, per metterla a suo agio. Il messaggio che riceve è chiaro: gli esseri umani non sono soli nell’universo, ma devono ancora compiere molti passi per comprendere la realtà più grande in cui sono immersi.

Al suo ritorno sulla Terra, però, si trova di fronte a un’amara sorpresa: non c’è alcuna prova tangibile del suo viaggio. Per gli osservatori esterni, la capsula è caduta attraverso la Macchina istantaneamente, come se nulla fosse accaduto. Nessuna immagine, nessuna registrazione, nessun dato a confermare la sua esperienza. Ellie sa di aver vissuto qualcosa di straordinario, ma non può dimostrarlo.

Il film si conclude con un paradosso: la scienziata che per tutta la vita ha richiesto prove empiriche si trova ora nella posizione di dover chiedere agli altri di crederle sulla parola. È il ribaltamento della sua stessa visione del mondo: ora Ellie comprende che esistono verità che sfuggono alla verifica sperimentale, e che a volte per vedere bisogna prima credere.

Rappresentazione artistica di un wormhole @ Stefano Camilloni

Il ruolo della percezione e della prova empirica

Uno dei temi centrali del film è il conflitto tra realtà soggettiva e oggettiva. Ellie ha vissuto qualcosa che, per lei, è assolutamente reale, ma il mondo non può verificarlo. La sua esperienza è stata solo un’illusione? Oppure la scienza non ha ancora gli strumenti per cogliere certe realtà?

Il film ci lascia volutamente con un’indicazione ambigua: alla fine, un funzionario governativo suggerisce che le registrazioni della capsula contengono 18 ore di rumore statico, esattamente la durata del viaggio di Ellie secondo la sua percezione. Questo dettaglio – tenuto segreto dalle autorità – lascia intendere che forse qualcosa di straordinario è accaduto davvero.

Ma la vera domanda che il film pone è più profonda: cosa consideriamo reale? Se la nostra percezione dell’universo dipende dai nostri strumenti e dalla nostra esperienza, potremmo essere ciechi a una parte della realtà solo perché non abbiamo ancora i mezzi per osservarla?

Il messaggio di Contact è un invito all’umiltà scientifica: anche la scienza, con tutto il suo rigore, non ha ancora risposte per tutto.

Il romanzo di Carl Sagan: una rivelazione nascosta nei numeri

Il finale del film differisce in modo significativo da quello del romanzo di Carl Sagan. Nel libro, non è solo Ellie a compiere il viaggio, ma un intero gruppo di scienziati. Anche qui, al ritorno, non ci sono prove fisiche del loro viaggio, ma tutti condividono la stessa esperienza, rafforzandosi a vicenda.

La differenza più sorprendente, però, è l’ultima scoperta di Ellie nel romanzo. Continuando le sue ricerche, trova un messaggio nascosto nel numero π (pi greco): convertendo le cifre in base 11, emerge un disegno di un cerchio perfetto, come se qualcuno avesse inciso un messaggio nella matematica stessa dell’universo.

Questa scoperta suggerisce un’idea sconcertante: l’universo potrebbe essere stato progettato da un’intelligenza superiore. Non una divinità tradizionale, ma un’entità che ha “firmato” la struttura del cosmo con un codice nascosto nei numeri.

Questo concetto introduce un’idea straordinaria: la scienza può, un giorno, trovare prove dell’esistenza di un disegno intelligente dietro l’universo. Sagan, pur essendo un ateo dichiarato, con Contact ha lasciato aperta la porta a una forma di spiritualità basata sulla conoscenza scientifica.

Un messaggio per il futuro

Il finale di Contact, sia nella versione cinematografica che in quella letteraria, non offre risposte definitive, ma spinge lo spettatore a riflettere. La scienza può spiegare tutto? Quanto della realtà ci sfugge semplicemente perché non abbiamo ancora gli strumenti per osservarla? Esistono verità che richiedono un atto di fede, anche nel metodo scientifico?

Carl Sagan e Robert Zemeckis ci invitano a esplorare queste domande senza pregiudizi, con mente aperta e cuore pronto a meravigliarsi. Contact non è solo un film di fantascienza, ma un inno all’incessante ricerca dell’ignoto, alla curiosità che spinge l’umanità a guardare le stelle e a domandarsi: siamo soli?

Stefano Camilloni

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