Che cosa hanno in comune la maggior parte dei pianeti che orbitano attorno ad altre stelle? Secondo le osservazioni degli ultimi anni, sembrano raggrupparsi soprattutto in due categorie: le cosiddette super-Terre (1-2 volte le dimensioni del nostro pianeta) e i mini-Nettuni (2-4 volte le dimensioni terrestri). Questi mondi, che non hanno un corrispettivo esatto nel nostro Sistema Solare, sono tanto diffusi quanto misteriosi: come si formano? Perché ce ne sono così tanti? Una possibile risposta arriva da una nuova ricerca, pubblicata su The Astrophysical Journal Letters, condotta da Sho Shibata e André Izidoro della Rice University. Utilizzando avanzate simulazioni al computer (N-body simulations), i due studiosi propongono un modello in cui super-Terre e mini-Nettuni si formano a partire da specifici “anelli” ricchi di materiale solido nel disco protoplanetario – quella sorta di “culla cosmica” di gas e polveri che circonda una stella in formazione.
La sfida di spiegare super-Terre e mini-Nettuni
Per decenni, gli astronomi hanno provato a capire come si formino pianeti di dimensioni intermedie tra la Terra e Nettuno. I modelli tradizionali ipotizzavano una distribuzione continua di planetesimi – piccoli blocchi rocciosi o ghiacciati – che, collidendo, avrebbero dato vita progressivamente a oggetti più grandi. Eppure, la varietà di esopianeti osservati (specie quelli di taglia “super-Terra” e “mini-Nettuno”) suggerisce che la realtà potrebbe essere più complessa.
Lo studio di Shibata e Izidoro mette in luce un aspetto cruciale: l’organizzazione con cui i planetesimi si accumulano. Invece di addensarsi uniformemente su tutta l’estensione del disco protoplanetario, il materiale solido si localizzerebbe in “zone preferenziali” – anelli in cui polveri e detriti si aggregano in modo massiccio e più efficiente, favorendo la rapida crescita dei pianeti.
Il ruolo degli anelli protoplanetari
Gli autori si sono focalizzati su due regioni chiave del disco:
- Interno (entro 1,5 Unità Astronomiche – UA), una zona calda dove le temperature elevatissime influenzano il modo in cui i materiali rocciosi possono condensarsi e fondersi.
- Esterno (oltre 5 UA, nei pressi della cosiddetta “linea della neve”), dove le temperature più basse permettono al ghiaccio di formarsi e accumularsi, fornendo una massa maggiore a disposizione della crescita planetaria.
Le simulazioni mostrano che:
- Le super-Terre tendono a formarsi più facilmente nella regione interna, accrescendosi attraverso processi di collisione tra planetesimi rocciosi.
- Le mini-Nettuni emergono prevalentemente nel disco esterno, crescendo anche grazie all’accrescimento di pebbles (piccoli aggregati di polveri) e incorporando una certa quantità di ghiaccio, il che spiega la loro struttura “più leggera” rispetto ai pianeti terrestri.
Questo “sdoppiamento” delle regioni dove si accumulano e crescono i planetesimi offre una spiegazione coerente di come possano nascere pianeti con composizioni e dimensioni così differenti, pur essendo vicini in un sistema extrasolare.
Le osservazioni che confermano il modello
Uno dei risultati più sorprendenti del nuovo studio è la riproduzione del fenomeno noto come “valle dei raggi” (radius valley). Dalle osservazioni effettuate con telescopi spaziali (come Kepler) emerge infatti un’insolita “lacuna” attorno a 1,8 volte il raggio terrestre: al di sotto di questa soglia, i pianeti sono per lo più rocciosi; al di sopra, possiedono spesso strati più consistenti di ghiaccio o gas.
Nel modello di Shibata e Izidoro, questa separazione viene spiegata dal diverso meccanismo formativo: i pianeti sotto 1,8 raggi terrestri sono essenzialmente solidi (super-Terre), mentre quelli sopra tale soglia accumulano inviluppi più densi, diventando mini-Nettuni.
Lo stesso schema conferma l’osservata “uniformità di dimensioni” (peas-in-a-pod pattern) in molti sistemi multiplanetari. Se i pianeti si generano tutti negli stessi anelli di formazione, è naturale che abbiano dimensioni, composizioni ed età simili.
Terre 2.0 nella zona abitabile? Possibilità e probabilità
Un aspetto ancora più affascinante riguarda la potenziale formazione di pianeti simili alla Terra nella fascia di abitabilità, dove le temperature consentono la presenza di acqua liquida in superficie. Secondo i ricercatori, sebbene sia un evento raro, potrebbe verificarsi attraverso impatti tardivi e massicci, analoghi a quelli che, nella storia del Sistema Solare, hanno portato alla formazione della Terra e della Luna.
In base alle simulazioni, circa l’1% dei sistemi che ospitano super-Terre e mini-Nettuni potrebbero avere anche un pianeta di dimensioni terrestri in orbita a una distanza analoga alla Terra dal Sole. Forse non sembra molto, ma vista l’abbondanza di stelle simili al Sole nella nostra galassia, la stima implica un numero significativo di sorelle della nostra Terra.
Prospettive future
Questo modello suggerisce nuove previsioni, per esempio la presenza di determinate caratteristiche chimico-fisiche in sistemi planetari lontani, oppure la possibilità di trovare nuovi mondi abitabili tra i sistemi che già sappiamo essere ricchi di super-Terre o mini-Nettuni.
Le prossime generazioni di telescopi spaziali e terrestri – come il JWST, o i futuri osservatori dedicati allo studio degli esopianeti – potranno mettere alla prova queste ipotesi, confrontando i dati osservativi con le previsioni delle simulazioni. “Se le osservazioni confermeranno i nostri risultati – spiega Shibata – potremmo dover rivedere radicalmente le nostre idee sulla formazione planetaria, non solo nella nostra galassia, ma in tutto l’universo”.
In conclusione, il lavoro di Shibata e Izidoro propone un nuovo paradigma capace di spiegare in modo ordinato due delle categorie di pianeti più diffuse nella Galassia, offrendo anche spunti per comprendere come e dove possano emergere pianeti potenzialmente simili alla Terra. È uno scenario che mette in evidenza quanto complesso e affascinante sia il “laboratorio cosmico” nel quale nascono i mondi, e che ci invita a continuare a scrutare il cielo alla ricerca di Terre 2.0.
Per approfondire:
- Lo studio è disponibile su The Astrophysical Journal Letters.
Stefano Camilloni