Siamo ormai abituati a sentir parlare ovunque di Intelligenza Artificiale (IA): dai social ai telegiornali, dai film di fantascienza ai nostri smartphone. Ma che cosa significa davvero dire che una macchina è “intelligente”? E soprattutto, dobbiamo davvero definirla così? Luciano Floridi, uno dei maggiori filosofi contemporanei del digitale, ci suggerisce un cambio di prospettiva affascinante e utile: forse la vera domanda da porci non è quanto le macchine siano intelligenti, ma in che modo esse agiscono. In altre parole, invece di concentrarci sul concetto sfuggente di “intelligenza”, dovremmo parlare piuttosto di “agire artificiale”.
Un nuovo punto di vista: cosa significa “agire”?
Pensiamo all’agire come alla capacità di interagire con ciò che ci circonda, prendere decisioni in autonomia e adattarci a nuove situazioni. Tutti noi agiamo continuamente: camminiamo, prendiamo decisioni, rispondiamo agli stimoli del nostro ambiente. Ma non siamo gli unici a farlo: anche gli animali agiscono, e persino certi oggetti creati dall’uomo, come un termostato, mostrano forme rudimentali di azione.
Ecco allora che diventa chiaro come l’IA, con i suoi sofisticati algoritmi capaci di imparare e rispondere agli stimoli, rientri in questa categoria più ampia: è anch’essa un agente, seppur artificiale, che interagisce, ha un certo livello di autonomia e sa essere adattabile.
Dalle forme più semplici a quelle più complesse di agire
Proviamo a immaginare un fiume: non ha intenzioni o scopi, eppure “agisce” nel paesaggio che attraversa, erodendo rive, creando ambienti naturali, interagendo con l’ambiente in maniera continua. Salendo di complessità troviamo gli animali, che agiscono con lo scopo preciso di sopravvivere e riprodursi, adattandosi alle condizioni mutevoli.
Poi ci siamo noi esseri umani, capaci di forme straordinarie di azione: siamo coscienti, abbiamo intenzioni, emozioni e morale. Ed è proprio confrontandoci con l’agire umano che tendiamo a definire l’intelligenza. Tuttavia, è qui che Floridi ci mette in guardia: l’IA non è umana, non ha coscienza o emozioni, ma questo non significa che non possa “agire” in un modo nuovo e diverso.
L’IA come Agire Artificiale: cosa la rende unica?
L’IA agisce grazie a obiettivi stabiliti da programmatori umani, ma è anche capace di adattarsi e apprendere dalle informazioni che riceve. Questo le permette di compiere azioni molto complesse, risolvere problemi specifici e persino sorprendenti, come generare testi coerenti, creare immagini realistiche o guidare un’auto in autonomia.
Ma attenzione: l’IA non pensa nel senso umano del termine. È un agente artificiale che agisce senza intenzione, emozione o comprensione reale. È un agire puramente “computazionale”, basato sul riconoscimento di modelli e sull’elaborazione di grandi quantità di dati.
Quando l’IA diventa “sociale”
Ora immagina non una singola IA, ma decine, centinaia, migliaia di agenti artificiali che collaborano tra loro. Questo scenario è chiamato Social Artificial Agency (o semplicemente Agentic AI): sistemi di IA che cooperano autonomamente per raggiungere obiettivi comuni, riducendo al minimo l’intervento umano.
Potrebbero gestire prenotazioni di voli e hotel, organizzare catene logistiche complesse o persino coordinare attività di emergenza. Ma proprio la loro capacità di agire in autonomia e di collaborare solleva domande fondamentali sulla sicurezza, sulla responsabilità e sulla gestione di eventuali errori.
Cosa cambia concretamente?
Considerare l’IA come un agente artificiale, anziché come un’entità intelligente simile a noi, cambia profondamente come dobbiamo affrontare il suo sviluppo:
- Responsabilità: dobbiamo definire chiaramente chi è responsabile delle azioni delle macchine che operano autonomamente.
- Controllo: è necessario stabilire regole precise e meccanismi di supervisione per evitare comportamenti inattesi.
- Consapevolezza: ci protegge da illusioni antropomorfiche, ricordandoci che dietro ogni azione artificiale non c’è comprensione o volontà.
Verso il futuro
In definitiva, comprendere l’IA come Agire Artificiale – sottolinea Floridi – significa accettare la diversità profonda che la separa da noi umani, sfruttando al meglio i suoi punti di forza e riconoscendo i suoi limiti. Questo ci aiuterà a evitare malintesi, a valorizzare l’innovazione tecnologica e, soprattutto, a governare con responsabilità questo potente strumento che abbiamo creato.
La vera rivoluzione dell’IA potrebbe quindi non essere nella sua presunta “intelligenza”, ma proprio nella sua capacità unica e inedita di agire, trasformando il nostro modo di interagire con il mondo.
PER APPROFONDIRE: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=5135645
Stefano Camilloni